Tre volte me

trevolteme

Mi svegliai a causa di un raggio di sole che passava dalla finestra alla destra del mio letto.

Mi girai dalla parte opposta per non essere infastidito da quella luce.

Proprio in quel momento entrò in camera mia la signora delle pulizie.

Si chiamava Maggie, era una signora molto grassa, aveva i capelli biondi con i riccioli ed era una donna molto silenziosa, quasi invisibile.

Come tutti gli altri giorni i miei genitori erano al lavoro.

Mi alzai, salutai Maggie e scesi le scale fino ad arrivare alla cucina dove la colazione era già servita sul tavolo.

Mentre mangiavo tutto solo sentivo la necessità di passare un po’ di tempo con i miei genitori.

Non facevamo colazione insieme da circa un anno, cioè da quando mamma e papà avevano cambiato lavoro.

Era domenica, il giorno in cui tutti i figli passano più tempo con i genitori, anzi non tutti, io no.

Avrei passato un altro giorno chiuso in casa con Maggie, che noia.

Passai la domenica nella mia camera a leggere “Hunger Games” o incollato alla poltrona quardando la TV.

Mi fermavo solo quando dovevo mangiare, poi tornavo alla solita routine.

Mi coricai verso sera, la luna era rosa, uno spettacolo magnifico.

I raggi lunari illuminavano il letto, tutto era rosa.

Pronunciai queste parole: “Vorrei cambiare vita” e poco dopo mi addormentai.

Mi risvegliai tutto sudato senza neanche capire perchè.

Solo dopo mi accorsi che ero in un fienile, mi girai verso sinistra e venni colpito dalla coda di un cavallo.

C’era una puzza tremenda in quella stalla, mi alzai da quel letto di fieno, uscii da quel fienile e subito un raggio di sole caldissimo mi diede il buongiorno.

Ero impaurito, non sapevo cosa fosse successo.

Mi guardai e vidi che indossavo vestiti ricavati da stracci, tutti sporchi, avevo un prurito tremendo, le mie mani erano luride e non avevo scarpe ai piedi.

Mi venne incontro un uomo alto, con i capelli castani lunghi fino alle spalle e un pizzetto anch’esso castano.

Aveva una strana ferita sulla fronte vicino all’occhio destro, portava una stupenda armatura con una cotta di maglia.

Aveva una tunica bianca con una croce rossa cucita sul petto.

Era un templare, non capivo cosa ci facesse a Boston.

Mi guardai intorno e mi accorsi che non ero più a Boston a casa mia, ero nel cortile, vicino alle stalle di un piccolo castello tutto di pietra scura.

Quell’uomo mi disse di chiamarsi Giacomo de Molay e che io ero il suo servo.

Mio padre mi aveva venduto a lui per poche monete la sera prima.

Non fece in tempo a finire di parlare che subito mi ordinò di andare ad affilare la spada perché l’indomani sarebbe dovuto partire per la guerra contro i mussulmani.

Mi recai il più velocemente possibile dal fabbro con le spade, le feci affilare e intanto lucidai gli schinieri e i bracciali in cuoio.

Tornai a casa verso sera tardi, appoggiai le spade e l’armatura all’entrata del castello, non sapevo cosa dovevo fare.

Decisi di fare un giro intorno al castello per cercare qualcuno che mi potesse aiutare, ad un certo punto sentii abbaiare un gruppo di cani, vidi che erano indaffarati a rubarsi un cosciotto di agnello, nelle vicinanze c’era un ragazzino secco secco che stava ridendo.

Mi avvicinai per vedere meglio la scena, capii immediatamente cosa c’era di buffo: il più piccolo dei cani era salito sul cosciotto e mordeva con gran coraggio quelli più grandi.

Incominciai a ridere anche io, in quel momento il ragazzino si girò, mi diede una gomitata e ridemmo insieme della scena.

Avevo un nuovo amico, si chiamava Gabriel ed era il figlio della cuoca.

Sentendo brontolare il mio stomaco mi portò in cucina dove tutta la servitù era seduta a mangiare in un enorme tavolo di legno.

Fui accolto con un rimprovero della mamma di Gabriel: “Ma dove ti eri cacciato?

Il padrone mi aveva avvertito del suo arrivo, sei sparito tutto il giorno, qua si riga dritto!”.

“Padron Giacomo mi ha mandato dal fabbro” risposi io.

La cuoca si addolcì immediatamente e mi mise a sedere di fianco a Gabriel servendoci una zuppa bollente e un bacio sulla testa.

Era molto tempo che non mi sentivo così bene.

Passai tutta la sera a chiacchierare con il mio amico: mi raccontò di quanto eravamo fortunati a lavorare per il nostro signore, un eroe della Guerra Santa e raccontò di tutte le imprese che aveva compiuto.

Gabriel non stava zitto un attimo, era magro, biondino, basso di statura e velocissimo.

Quella sera rubò dalla cucina i biscotti per il giorno dopo senza farsi beccare, li mangiammo nel fienile lontano dagli sguardi e dalle orecchie della cuoca.

Era ormai tardi ma volevo raccontargli chi ero e cosa mi era successo quella giornata, Gabriel mi zittì dicendomi: “Caro mio, sono troppo stanco per starti ad ascoltare, me lo dirai domani a pranzo.

Ci aspetta un sacco di lavoro, il padrone sta per partire per le crociate e domani darà una festa per salutare i suoi amici”.

Schizzò via come un lampo lasciandomi riposare sul mio letto di fieno e mi addormentai immediatamente, fu un sonno profondo e senza sogni.

Una donna stava cantando e si sentiva il rumore di acqua e un odore di fumo che arrivava a pizzicarmi le narici, a quanto pareva erano tutti già al lavoro.

Mi alzai a fatica, ma ebbi un’incredibile sorpresa, gli abiti che avevo lasciato vicino al pagliericcio non erano più gli stessi, solo adesso mi accorgevo che avevo riposato su un tavolaccio di legno, non ci capivo più nulla.

Indossai pantaloni troppo attillati per il mio gusto, una camicia ampia bianca e una giacchetta senza maniche e strane scarpe che sembravano più delle calze, mi sentivo un pochino ridicolo, ero incuriosito da questa nuova situazione.

All’improvviso sentii gridare: “Tonio, piccola peste, dove ti sei cacciato? il padrone ti sta cercando!”.

Uscii dalla casetta e una vecchia secca come una prugna mi venne incontro con una velocità che non aveva niente a che vedere con la sua età.

Mi prese per il codino dei capelli che molto probabilmente mi era cresciuto durante la notte, visto che non ricordavo di possederlo il giorno precedente e mi trascinò in un cortile ampio.

Un signore stava lavorando ad una macchina, sembrava una giostra per bambini che girava in tondo ma al posto dei sedili, a vorticare nell’aria c’erano grappoli di mazze ferrate.

Quando l’uomo si voltò fui preso da uno stupore immenso: ero il servo del grandissimo Leonardo Da Vinci, non potevo credere a ciò che stavo vedendo.

Mi fece un cenno ed io tutto agitato mi avvicinai. Egli mi disse: “Tonio, rimetti in piedi quelle sagome di legno, dobbiamo riprovare la macchina”.

“Sì, signore!”, risposi secco e corsi in giro per il cortile a rimettere in piedi finti soldati da abbattere, non appena tutto fu pronto Leonardo fece partire la macchina che iniziò a roteare e a disintegrare qualsiasi cosa incontrasse durante il percorso.

Il maestro Leonardo venne vicino e mi chiese: “Secondo te, Borgia può ritenersi soddisfatto?”.

Mi ricordai della lezione di storia e timidamente chiesi: “Signore, sta parlando di Cesare Borgia?”

“Sciocchno, non ti ricordi che domani verrà ed io dovrò mostrargli tutti i disegni delle macchine da guerra che mi ha commissionato?” mi disse Leonardo.

Ero emozionato, avrei assistito all’incontro tra due grandissimi personaggi della storia.

In quel momento il maestro se ne andò, ma ad un tratto si girò e mi disse: “Tonio, ci vediamo oggi pomeriggio nel mio studio”.

Mi girai di scatto per andarmene e nel farlo cozzai contro qualcosa, caddi a terra tutto rintronato massaggiandomi la testa.

A terra come me con il naso che colava sangue c’era Gabriel, che meraviglia qualcuno a cui chiedere spiegazioni.

Mi alzai ma la testa girava, Gabriel mi venne incontro e mi disse: “Tonio ti stavo venendo a cercare, dobbiamo andare al mercato per la spesa, è già tardi e se non ci sbrighiamo salteremo il pranzo”.

Mi afferrò per il braccio, si asciugò il naso sulla manica e ci incamminammo verso il paese.

Come al solito non smise di parlare un attimo  e fu un bene perchè capii che lui era il mio Gabriel solo come aspetto, in questo tempo e luogo si chiamava Gabriele ed era un orfano accolto dal maestro Da Vinci.

Il desiderio più grande di Gabriele era diventare un giorno l’allievo di Leonardo.

Prendemmo tutto il necessario al mercato e carichi come due somari tornammo a casa, consegnammo alla vecchia prugna tutto quanto che in cambio ci diede due scodelle di latte e quattro fette di pane.

Era una bellissima giornata e Gabriele che teneva la sua ciotola di latte con le mani e le fette di pane in bocca mi fece cenno di sedere su di una panca vicino ad una piccola casina.

Incominciammo ad inzuppare il pane e a mangiare, poi Gabriele mi disse: “Guarda là, sta lavorando”.

Dentro la casina si intravedeva Leonardo, era alle prese con un quadro, controllava, dipingeva, lavava pennelli, provava nuovi colori, ritoccava, sarei stato ore a guardarlo.

Finito il nostro pranzo portammo le ciotole in cucina, le lavammo nell’acquaio schizzandoci a vicenda. Gabriele era proprio un grande amico, di quelli con cui silenzi non esistono e parlare viene naturale.

Il pomeriggio passò tra faccende da sbrigare per la vecchia rinsecchita e materiale da portare allo studio del maestro.

Leonardo ci chiamò e disse di fermarci un attimo insieme a lui, poi si sedette tra di noi, prese un foglio e con un carboncino scrisse una parola, era strana, non la riconoscevo e neppure la lingua usata.

Rise di gusto nel sentirci indovinare cosa ci fosse scritto. Nessuno dei due ci riuscì, allora mandò me a prendere uno specchio nella sua scrivania, lo avvicinò alla parola e ci disse: “Leggete nello specchio e non sulla carta”.

Solo allora mi ricordai che Leonardo scriveva da destra a sinistra: avevamo fatto un’intera lezione a scuola su questa cosa, l’insegnante ci aveva chiesto di scrivere intere frasi al contrario, ricordo che la cosa si era dimostrata più complicata del previsto.

Sollevai lo sguardo e fissai Leonardo, in quel momento i pensieri del maestro erano lontani, stava guardando due colombe che volteggiavano nel cielo, le guardò a lungo, poi ritornò al foglio e cominciò a disegnare un bellissimo paio di ali, talmente dettagliate da poterle quasi vedere muovere.

Gabriele le fissava a bocca aperta e Leonardo ridendo gliela chiuse, poi gli passò il carboncino e gli chiese di iniziare a disegnare.

Passai tutto il pomeriggio a guardare Gabriele che era talmente concentrato da mordersi le labbra e Leonardo che lo correggeva e gli insegnava come tracciare le linee.

Prima di cena ci fu ordinato di dare da mangiare alle bestie: polli, conigli e cavalli, sistemammo le stalle e ci recammo nella cucina dove sul tavolo ci aspettava una zuppa calda di verdure.

Dopo aver cenato decidemmo di andarcene a letto, salutai mal volentieri Gabriele, già sapevo che l’avrei perso nuovamente come amico, mi recai alla mia stanzina, mi stesi nella branda e notai qualcosa che mi fece venire i brividi: la mia camicia non era più bianca, questa notte era rosa, sollevai lo sguardo e dalla piccola finestra sopra il letto vidi un’enorme luna rosa.

Cominciai a piangere e pregai: “Voglio tornare a casa, voglio la mia casa”.

Lo ridissi finchè il sonno non sopraggiunse e tutto sparì.

Mi svegliai di soprassalto nel silenzio totale, nessun rumore…avevo paura ad aprire gli occhi, annusai ma nessun odore strano mi arrivava alle narici.

Mi feci coraggio, aprii gli occhi di scatto e vidi il sistema solare che mio papà mi aveva dipinto sul soffitto quando ero piccolo. Mi girai nel letto, tutto era come doveva essere.

Per la prima volta apprezzai quello che possedevo, anche la compagnia silenziosa di Maggie. Feci colazione e mi preparai per andare a scuola convinto che tutto fosse stato un sogno.

Il pullman arrivò in orario e come tutte le mattine mi sedetti all’ultimo posto prchè nessuno me lo teneva occupato.

Quella mattina il trasporto scolastico fece una nuova fermata, guardai fuori dal finestrino ma non vidi nulla di interessante, poi una voce mi chiese: “Posso sedermi qua o hai occupato il posto per qualcuno?”

Alzai gli occhi e vidi un viso che mi scaldò il cuore: era Gabriel o Gabriele o non so chi. A fatica gli feci cenno di sedere e lui sorridendo si accomodò di fianco a me, si presentò come Gabriel e incominciò a raccontare tutto di sè: i suoi genitori si erano trasferiti qua per lavoro e bla bla bla…era un piacere ascoltarlo.

All’improvviso tirò fuori un taccuino dallo zaino e cominciò a disegnare un paio di ali bellisime. Io gli chiesi: “Chi ti ha insegnato a disegnare così?”.

Lui ridendo mi rispose: “Leonardo da Vinci ieri notte” e mi fece l’occhiolino.

Da quel giorno diventammo come burro e marmellata.