Words on you

Cap. I: The moving palace.

“Consulta il dizionario”.

Ma per me ci vorrebbero 33 dizionari.

Sono presa dal panico, ormai tutti hanno la loro parola.

Se non tatuata, almeno pensata o scritta da qualche parte. alcuni addirittura l’hanno incisa su anelli o collane da cui non si separano mai.

Io non ce l’ho, non l’ho ancora scovata dal luogo polveroso e remoto in cui  si è nascosta.

Quando chiudo l’ennesimo dizionario, mi sdraio sull’erba morbida della collinetta e chiudo gli occhi:

-Possibile che nessun’altro abbia mai avuto dubbi sulla sua parola? Che io sia l’unica a chiedersi il perché di questa stupida usanza?!-.

“Ogni giovane, all’alba dell’ultimo giorno del suo diciottesimo anno di vita si presenterà alla comunità. Il suo corpo dovrà essere tatuato, coperto da una e una sola parola”.

Ci hanno fatto imparare a memoria quella legge, senza spiegarla. E’ così, e basta.

Sono presa dal panico, ormai tutti hanno la loro parola: alcuni sanno già il colore dell’inchiostro con cui se la faranno tatuare, scelto in base a tonalità di occhi, pelle e capelli.

Io non ce l’ho, non l’ho ancora scovata dal luogo polveroso e remoto in cui si è nascosta.

Bisbiglio un ordine chiaro e forte al mio orologio da polso e la mia tracolla compare direttamente attorno a mio braccio teso. Quando  la apro, il taccuino del nonno mi salta in mano, nella piccola  tasca dietro la copertina c’è ancora la busta di carta pergamena, con il sigillo scarlatto rotto e sbeccato: il foglio che custodisce è pieno di macchie di  caffè, i paragrafi sono scritti fittamente e le parole sembrano formare un’unica frase. Tutt’attorno, come le colonne di un tempio, gli appunti fatti dal lapis consumato di mio padre sono un puzzle di asterischi e frecce. Però il titolo è ben comprensibile: “Parole, parole, parole”.

E’ scritto a mano, uno dei pochi ormai. Ma nella mia famiglia il fascino della calligrafia non è mai tramontato. Fin da quando la prozia di mia mamma (una vecchietta gobba, minuta, con le dita incallite e gonfie) ha preso in mano al meglio delle sue possibilità vista l’età avanzata, la penna stilografica, tutti noi Ameoir abbiamo abbandonato per almeno una settimana all’anno le tecnologie, o  i registratori o l’inchiostro autoscrivente per dedicarci a continuare con la nostra migliore grafia quell’argomentazione così preziosa.

Sono presa di nuovo dal panico: anche sul quel miserabile scarabocchio tutti hanno scritto qualcosa su di loro e sulla loro parola.

Ma io la mia parola non ce l’ho, non l’ho ancora scovata dal luogo polveroso e remoto su cui si è nascosta.

Scorro rapida il documento: la storia, le motivazioni, gli esempi più originali (sorrido vedendo gli schizzi fatti da mia mamma di uomini e donne coperti da stampe a fumetto, articoli di giornale e pennellate di colore, pesci che nuotano in acque limpide e i cieli stellati dell’estremo nord) e giungo sul retro della pagina: “Come scegliere la vostra parola”.

Ho una fitta al petto: mi ero rifiutata di leggere questo trafiletto, quando mio cugino ha smesso di venire a passeggiare con me, quando ha smesso di insegnarmi a disegnare, bloccato a letto. Era stata un’intolleranza, un’allergia all’inchiostro, comparsa pochi giorni dopo la sua iniziazione. E’ culminata con una crisi respiratoria, sono stata l’ultima a vederlo. E’ morto abbracciandomi e da allora non ho avuto mai il coraggio di guardare con indifferenza tutti quelli che avessero anche solo una macchia fatta da una stampante guasta sulle dita.

Guardo il cielo, sussurrando a mezza voce: “Scusami, Ed. Questa volta è davvero importante”.

Torno a fissare il foglio e sotto ogni punto scarabocchio alcuni appunti a matita:

  • Guardare dentro se stessi e capire cosa è importante per noi.

Già fatto, senza risultati.

  • Guardarsi attorno, vedere cosa ci colpisce e scrivere una lista di parole che pensiamo in quel momento.

Dato che mi fido ancora di mio cugino più che di tutti gli altri, mi alzo e faccio una passeggiata per il bosco attorno alla collinetta: uccelli, ali, foglie, verde, ruscello, acqua, chiara. Cammino finché non  mi fanno male i piedi scribacchiando appunti. Giungo al centro di una radura e torno indietro, più demoralizzata di prima. Ricontrollo le mie carte spaciugate … ma non c’è una parola che sia una che si salvi, non hanno senso per me, non vogliono dire nulla. Sdraiata sulla collinetta, mi aggrappo all’ultimo punto della lista:

  • Ripensare ad avvenimenti importanti della nostra vita, a persone indimenticabili e lasciare che siano loro a suggerirci la parola.

L’ultima frase di Ed resta sospesa nell’aria, perché il sole sta scendendo e io devo correre a casa. Mia madre è abituata a non avermi in casa soprattutto ora che c’è in ballo la questione della parola. Ma i campi multicolore di cereali, i boschi fitti e scuri e la piccola steppa mutaforma che circondano il villaggio sono lunghe da attraversare.

Mi alzo, bisbiglio di nuovo all’orologio e la lettera e le cartella spariscono. Con la velocità che ho sviluppato rincorrendo i miei amici da piccola, mi ci vogliono meno di venti minuti. Ma sono fuori allenamento e quando arrivo alle porte del villaggio sto ansimando. Rallento il passo e do un’occhiata alla città che sta giungendo al termine di un’altra sua tranquilla giornata.

La città è lo specchio della tradizione che la anima da secoli: tutte le case sono piccole, circondate da giardini con fiori, alberi enormi per farci ombra d’estate. Sembrano i borghi montanari che si vedono nei libri della nonna: Trentino, 1961 e sotto la foto di borghetti addobbati con vasi di gerani scarlatti e sovrastati da montagne innevate. La nostra gente è come le case che abita: semplice e silenziosa. E la nostra vita è come il paesaggio che si presenta ai forestieri: invariato e sempre uguale …. perché da quando la situazione sul Pianeta terra si è stabilizzata (dopo le guerre interplanetarie e la pace siglata accanto al cadavere dei ghiacci antartici) i giorni qui non cambiano mai di una virgola e nei nostri quartieri nemmeno una foglia si sposta dal ramo su cui è posata.

Ma ecco che in mezzo ai quartieri muti spicca un palazzo alto decine di piani, ritorto su se stesso con forme sinuose. Molti lo chiamano Moving Palace, il palazzo che si muove oppure Tatoo, per via della sua funzione.

E’ bello in modo strano, senza uno spigolo, tutto in acciaio e vetro, con giochi d’acqua, luci ad ogni piano e sormontato da una cupola, orgoglio di tutti i vetrai. Nessuno conosce le meraviglie che vi sono all’interno: scale che si muovono da sole, specchi in grado di deformarsi e cose molto più affascinanti. Sulle sue innumerevoli facciate spuntano ogni volta disegni diversi: rampicanti che crescono come se fossero veri, stelle e pianeti che esplodono in una galassia lontana, parole scritte da chissà chi sui vetri, mari tempetosi che inghiottiscono un piano dopo l’altro. Ogni tanto il palazzo cambia forma, si aggiungono nuovi disegni e tutti in città si chiedono di chi sia stata l’idea, con che colore avrà rappresentato quei graffiti.

Tutti quelli che si fanno tatuare lì dentro sperano di uscire e vedere la loro parola dipinta sui muri di quella costruzione.

Le vetrate più gettonate restano lì per molti mesi, perché la gente vuole mostrarle a parenti o amici che vivono all’estero o semplicemente non ci sono disegni migliori per sostituirli.

Un vecchio zio di mia mamma che ci veniva a trovare mi raccontava che una volta per cose simili si usavano i “social-network” con una bacheca. “Magari un giorno la nostra bacheca sarà il cielo” mi diceva con gli occhi che brillavano come un bambino.

“Dovrebbero provarci” rispondevo con un sorriso.

D’altra parte, tutti vorrebbero avere una piccola porzione di cielo dedicata. Anche io, ma ormai non ci spero.

Perché tutti hanno la loro parola e io no.